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Immagine del redattoreMayra Stella M.

TUTTOMONDO - K. Hering

Aggiornamento: 1 ago 2020

Toscana.

Pisa. Sì, quella della torre.

C'è anche una chiesa: Sant'Antonio. Lì sulla destra c'è una strada, con la fermata dell'autobus, davanti al muro della chiesa, laterale. Aspetti l'autobus lì in piedi ed alle tue spalle c'è una parete alta 18 metri e larga 10.



BAM.

Un gran casino ti viene addosso. Da dovunque, da destra, sinistra, dall'alto, da molto in alto, ti piomba addosso una moltitudine: come il traffico di città, i clacson, la gente che parla, passa, il vento, i rumori – o forse i suoni – nella tranquillità che non ti aspetti. Sei in mezzo al caos, fermo ipnotizzato. Perché è troppo grande e ti sta mangiando. Sei in mezzo al tutto senza essertene accorto.

Sei in mezzo al tutto. Tuttomondo.


Non ho mai dato un titolo ai miei lavori. Nemmeno questo ne ha uno, ma dovesse averlo, sarebbe qualcosa come Tuttomondo!

Ci avete mai pensato che i suoni hanno una dimensione?

Un suono piccolo e gentile. Il cucchiaino del caffè.

Un suono caldo e silenzioso. La pacca sulla spalla.

Un suono enorme e divorante: il chiacchiericcio da ogni dove, ed il passaggio delle auto, uno sportello, un paio di tacchi. Le chiavi, un portone, il vetro rotto, in un'orchestra cittadina, tutta insieme. E tu lì in mezzo. Ubriaco di nuovo e inaspettato.


Così ti senti, lì davanti a quel muro disegnato. Lì, a Pisa.

Questa vecchia parete di una chiesa di periferia, un tempo scorticata e tumefatta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, oggi – e ormai da 31 anni – è piena di disegni e colori.

Enorme e fuori luogo, è un luogo a parte e fai due passi indietro per capire dove sei.

Che cosa è lei.

Una parete immensa di una chiesa ai bordi della città, alta più di un palazzo di 3 piani e larga quasi i doppio. Diciotto metri di lunghezza sono almeno 9 letti in fila uno dietro l'altro.

E questi 180 mtq di parete scorticata, il 14 giugno di 30 anni fa erano improvvisamente bianchi. Bianchissimi, come le scarpe di Keith, un ragazzo americano che disegnava sui muri di New York. Lo stesso ragazzo che in quel mercoledì di giugno arriva a Pisa, insieme a Piergiorgio, il suo amico italiano che l'aveva portato in Italia, da New York.


È il 19 giugno 1989.


Keith è un ragazzo americano. Il suo papà è un fumettista.

Lui è un writer, un “graffitaro”, di quelli che scrivono sui muri.Anche se in fondo, non è poi così vero.


Sul muro c'è una moltitudine confusa di sagome e colori e segni. Voci.

Questa che ascoltate in sottofondo è il sankirtan, una litania dal suono ipnotico di cui non so molto: ma un giorno qualunque del 1987 qualcuno la sta intonando in una via di Manhattan (NY). Piergiorgio Castelli, un ragazzo pisano di 19 anni, è lì un po' per caso e si ferma ad ascoltare.


Piergiorgio non è il solo ad assistere a quella esibizione: c'è un ragazzo magro, con occhiali tondi, un paio di jeans-chiari e scarpe bianche, bianchissime. Keith Haring è lì di fianco.Si conoscono così. Con questa stessa musica. Che poi è quella che accompagna i movimenti dei Radiant Boys, di Haring – li chiamano così – i suoi pupazzetti.Sono degli omini senza faccia, senza occhi, naso o bocca. Solo sagoma e dentro colore.

Come dei biscotti, come l'omino di marzapane: senza tridimensionalità, senza identità.

Delle sagome di personaggetti che si muovono.

30 di questi omini se ne stanno lì, sulla parete della chiesa da 30 anni.

30 di questi omini, ognuno pieno di un'energia diversa, ognuno affaccendato a far qualcosa.

Per il mondo. Tuttomondo.


Immagina la testa tonda, una palla, liscia e soda. E piatta. Il tronco magro, longilineo, e gambe e braccia tutte uguali, senza dita, appena arrotondate, un po' monconi.

Alti tre uomini terrestri.

Come lanci gli occhi oltre i 10 metri?


Svolti a sinistra e sei lì in basso. Nell'angolo. Nell'angolo a sinistra.Il primo ometto è viola. Com'è il viola?

Goffo e filiforme. Sa di succo andato a male.

Il primo ometto in basso non è un uomo: ha una coda e braccia lunghe, è un babbuino un po' reclino in avanti. Ha le ginocchia flesse e un piede che cerca un gradino inesistente; il petto in fuori, i gomiti in alto, più alti delle orecchie – se le avesse – i pugni appesi in giù, di lì a poco si gratterà le costole. È alto due volte te, la tua testa arriverebbe al suo petto. La coda dritta come un asta parallela all'asfalto, all'altezza del tuo, di petto. Finisce tondeggiante in un gancio all'ingiù, la coda, che sembra dare un pugno all'uomo accanto. Accanto e sempre in basso, un uomo verde-azzurro, come l'acqua un po' ferrosa di una pianta sul balcone. La spalla a terra, barcolla come una tartaruga rovesciata, una gamba in alto, insieme al braccio. Sembra reggere un altro ometto, blu profondo come il rumore del mare di notte: piegato in avanti, quest'uomo profondo, schiacciato dalle zampe di un uomo tacchino.


Ha il profumo della pesca arancia: un uomo tacchino senz'ali e con le braccia agitate, i gomiti e i pugni, scaccia tutti mentre balla sulla schiena di quell'altro. Scaccia a sinistra un ometto col mantello, tutto zuccherino, come le fragole rosse di maggio con la panna, il mantello ha il bordo sdentellato come lame di un coltello-pipistrello. Fa un inchino, le braccia aperte a croce, sta per spiccare il volo, il mantello appeso alle sue braccia come un lenzuolo, teso sui fili del balcone. E sui suoi gomiti tesi, la testa reclina, regge un delfino senza coda che ha due gambe.


Il delfino ha un occhio solo, è di profilo, il muso a punta, barcolla, è giallo, un colore che squittisce e brucia agli occhi. Il becco in alto, pizzica il culetto di una scimmia di caffè, collega a quella viola in basso. Una scimmietta seduta sul muso del delfino che dà i calci all'uomo-tacchino. Accanto, gattoni sulla testa del tacchino, un pargoletto inginocchiato, quatto quatto che gattona senza equilibrio. Gattona sulla testa dell'uomo tacchino tendendo la mano alla scimmietta.

Attento, bambino! Alle tue spalle un lupo-cane coccodrillo!

Si sta agitando, alza i piedi, i pugni chiusi e in una zampa una bacchetta: quasi un colpo sulla schiena del bambino a quattro zampe. Il lupo ha il petto aguzzo come il dorso di un draghetto, a punta, se lo tocchi ti fai male, ma: siamo seri. Non potresti mai toccarlo, il petto di un cane che scotta e si arrabbia. È rosso come il tea bollente che ti cade all'improvviso sulle cosce, mentre bevi. Con la zampa, atterra il calcio sulla testa dei gemelli.


Sì, appena sotto il lupo (bada bene: siamo sopra i cinque metri) il tallone del lupo coccodrillo finisce dritto su due gemelli doppia testa e un unico torace. Una clessidra? Un otto. Un simbolo infinito: sanno di vuoto, acidulo come l'odore di aceto balsamico e si asciugano le lacrime di una faccia che non hanno. O si toccano la nuca. Hanno i gomiti in alto e le mani sulla testa. E sotto loro, quattro uomini.

Anzi no, è una mano in basso al centro: sbuca tra l'asfalto e la parete come un fiore, ma è una mano col bracciale e cinque dita umane. Una mano gigantesca, niente dita e polpastrelli: sono cinque corpi che si agitano dritti a braccia in alto.


Accanto, al centro e in fuga, un uomo giallo. Giallo è sempre pizzicante e stridulo come il verso del delfino. Sta scappando, è di profilo e in corsa verso destra: alcuni dicono sia un autoritratto di Keith Haring che lascia l'opera, l'Italia e la vita.

Sapete, questo muro è disegnato e terminato in 4 giorni … di solito Haring finiva tutto quanto in un giorno solo: sapete come funziona per i writers, no?

Ma questo muro è enorme come mai: la città ha partecipato tutta quanta!

Ve lo immaginate? Un artista omosessuale che dipinge la parete di una chiesa. Col consenso dei Frati Servi di Maria – così si chiamano, in quella chiesa – e lui, Keith Haring, che arriva e cena insieme a tutti i frati in refettorio.

È giugno '89. Ho ascoltato l'intervista a uno di quei frati, dice: “Haring la sera ha voluto andare in chiesa e accendere una candela al Crocifisso, da solo, dieci minuti con sé stesso”.

È giugno '89. Nel febbraio successivo del '90, Haring muore.

L'ha mangiato l'AIDS. Il 16 febbraio anni '90.

Forse tu che ascolti non eri neanche nato, chissà. Io no.


L'omino-autoritratto stridulo corre verso destra e incrocia il corpo di una donna a scala: non ha faccia, ma so che è una donna. Ha le cosce tornite e i glutei in fuori, il petto a zig zag, il braccio in alto con il gomito piegato sulla testa, in quella posizione di imbarazzo o seduzione come a giocare coi capelli. Sul suo braccio, in piedi, oltre sei metri, un altro ometto fa l'hula hoop, mentre ai suoi piedi, a destra una madre e il bimbo in braccio, a sinistra un uomo con la testa televisione. Questa televisione spenta e rumorosa è al centro del muro.

E sopra lei, sopra la televisione, una croce di personcine del sapore della senape dolciastra. Quattro busti, quattro teste e otto braccia alzate. Una croce di persone.

Alcuni dicono sia il simbolo di Pisa: la croce pisana.

E sulla croce, un uomo affaticato, le ginocchia flesse e la testa affaticata, sulle spalle regge un delfino di profilo sorridente. Il delfino sembra un'onda e potresti accarezzarlo dolcemente, sarebbe viscido, credo.

Il delfino guarda un uomo che si infila il braccio lungo dentro il petto, ha un buco enorme e il braccio entra dal davanti ed esce dalla schiena e si congiunge alla sua stessa gamba senza piede. Ha un braccio-gamba attorcigliato.

E barcolla. Dà la mano all'uomo nell'angolo più in alto a sinistra: in alto a 10 metri di palazzo, nascosto dall'altezza inarrivabile di un muro sovrumano. È un uomo-matriosca, tre busti, uno dentro l'altro come tazzine di caffè, riordinate sulla mensola in cucina.

Barcolla anche quest'uomo-matriosca. Barcollano tutti.


Ma sapete una cosa?

Stanno danzando. Una di quelle musiche africane. Oppure indiane.

Ipnotiche, un po' goffe e ritmate. I movimenti sono quelli: gambe flesse e gomiti angolati e ben in alto. Tutti ballano sul muro della chiesa Sant'Antonio.

Prova a farlo anche tu. Ascolta questa musica sotto la mia voce, chiudi gli occhi e ondeggia. Destra, sinistra. Molleggia sulle gambe, chiudi i pugni e solleva gli avambracci. Non pensare, ascolta e basta. Non guardare, inspira a fondo. Senti il petto. Tum tum tum.

Bocca chiusa, apri la gola, le labbra serrate, come se avessi un boccone enorme e lascia uscire un po' di voce.

Questo suono appena muto che vibra il petto, ce l'hanno tutti e trenta i personaggi sopra il muro.

Ci sono molti spigoli nei corpi disegnati, mi fanno venire in mente degli apri bottiglia di metallo: rigidi e convessi; eppure sono tutti tondeggianti e sodi come un avocado quasi pronto, che rotola sul tavolo, la superficie cerata. Tanti avocado sparsi e barcollanti su tavolo pulito.


Ci sono ancora, in alto a destra, un altro uomo-matriosca a tre livelli: agita una pagina con un gran cuore caldo e qualche riga indecifrabile. Un foglio con messaggio di amore, mentre accanto, alla sinistra, una forbice enorme – fatta di due uomini – taglia un serpente dagli occhi a palla.


Come si spiega una forbice umana?Innanzitutto è senza gambe. Ha petto e lame, invece delle gambe. E sono in due, due uomini incrociati: le teste ben in vista e le braccia alzate a cerchio, come a disegnare un'aureola di bicipiti e avambracci.

Taglia un serpente che urla sconfitto. Piccante come il chili messicano, rosso, fuoco.


Sono lì in altissimo a sinistra al 3 piano!

Haring non ha dipinto tutto solo:

mi è sempre più chiaro che l'arte non è un'attività elitaria riservata all'apprezzamento di pochi. L'arte è per tutti, e questo è il fine a cui voglio lavorare.

Lui era lì, su quella strada, sull'impalcatura a cielo aperto e la gente pisana passava, lo vedeva, lui chiedeva di dipingere insieme. Molti studenti hanno contribuito. È un lavoro collettivo che ha mangiato il cuore della gente. È nato insieme a tutti.


Ancora un paio di omettini e poi ho finito. Finita la parete della chiesa.

In basso a destra un corpo a terra, due braccia ed una gamba. Schiacciato da tutti, da un uomo con due corpi, quattro gambe ed una testa, sola. Solo una testa per due busti, e sopra lui un uomo-uccello con le ali di farfalla, come i petali di un fiore, un crisantemo piccolo, lì in alto a quattro metri. È così tanta, tutta questa superficie di acrilici e intonaco, che non ha senso guardarla. Ha ben più senso sentirne il ritmo e l'energia di questi segni che a toccarli potresti seguirne il bordo con la mano. Ecco: se seguissi i bordi delle sagome con le mani, sembreresti uno sciamano danzatore che agita le braccia. Non è un quadro. Non è un oggetto.

È più grande di te, di me, di tutti messi insieme. Un'ammucchiata che sei dentro nella mischia, oppure te ne stai lontano, a sufficienza per rinchiudere quel caso in un'immagine, una frase. Da lontano, su un balcone.


Sto seduto sul balcone a guardare la cima della Torre Pendente. È davvero molto bello qui. Se c'è un paradiso, spero che assomigli a questo.


Non so se abbia avuto senso descrivere uno ad uno gli omini qui sul muro.

Si è creata confusione.

Come tra la gente.

Ha senso descrivere gli uomini uno ad uno? O sono tutti uguali e “mondo” è più che sufficiente?

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