GUERNICA BRUCIATA - P. Picasso
Aggiornamento: 1 ago 2020
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Picasso lo conosciamo tutti: il suo nome è diventato un po' un sinonimo di “artista”.
Sei un Picasso! Sarà che suo padre era un pittore, sarà che a 25 anni, solo venticinque, era tra tra GLI intellettuali dell'Europa parigina. Ah, questa Parigi!
… e non c'era Instagram, il web, a far da vetrina e piazza di confronto.
Ma chi fu davvero lui? Pablo. Picasso.
Non potremo saperlo, ma … ha parlato tanto ed è facile imbattersi in questa o quella citazione dalla sua bocca.
Picasso ha dipinto. Ma ha anche parlato. Ed attraverso le parole ci sveliamo e raccontiamo.
Per il Cubismo è inutile riprodurre la Realtà come la vediamo perché non è in quella forma che la conosciamo. Per restituirne alla ragione l'essenza, essa dovrà essere scomposta nelle sue innumerevoli facce e ricomposta, accostando le une alle altre sulla superficie della tela. […] come accade nella nostra coscienza vedendola contemporaneamente da ogni lato possibile. - Pablo Picasso, a proposito del Cubismo
È guardando con il tatto, che possiamo concepire meglio il Cubismo.
Come se avessimo due occhi mobili sui palmi delle mani, indipendenti l'uno dall'altro; possiamo toccare: guardare con le mani, contemporaneamente il naso e la nuca. E questo, gli occhi non sanno farlo.
Il Cubismo, la sua essenza, è la cecità degli occhi fisici.
Vi confesso che sono spaventata dalla scelta di oggi: Guernica.
È sfidante. È importante. È enorme: il quadro e la portata del suo valore storico.
Ma ci voglio provare: aiutami a dipingere. Io con le parole, tu con lo sguardo nelle orecchie.
È il 1937.
La guerra ha colorato l'Europa. Sì, l'ha colorata delle stesse tinte di questo quadro: bianco, nero e sfumature di Grigio. Che sapore ha il grigio?
Bruciato. Cenere.
Pensate alla carne grigliata. Sul fuoco, in giardino. È rimasta lì, tra le voci della gente che ride, parla, urla, strilla, litiga. La carne ancora lì. Sulla brace, cuoce. Cuoce e si brucia, secca. Sempre più dura e più acre l'odore. Brucia e resta lì: nessuno la solleva. Nessuno spegne il fuoco.
La confusione attorno sta ignorando quell'odore.
La cenere si solleva col fumo, denso, polvere.
Ed entra nel naso, negli occhi che bruciano e lacrimano.
Non hai bisogno di mangiarla, quella carne bruciata. L'odore è già pressante.
Ma forse vuoi assaggiarla. Non sai perché, è lì, ce l'hai davanti e non puoi fare a meno di prenderne un pezzo. Il sapore è troppo forte al punto da non esistere. La bocca è ubriaca.
Senti la lingua che si impasta col carbone, senza saliva. Asciuga tutto, non puoi parlare: è amaro e polveroso. Lo senti sul dorso della lingua, all'imbocco della gola e sul palato.
Quel bruciato, di polvere e fuliggine è l'impatto di Guernica: questo è il grigio, secondo gli occhi della mia bocca.
Che sapore ha il vostro grigio?
Sette metri e ottanta per Tre e mezzo.
Non esiste camera che abbia una parete simile.
Una sala, forse. Un corridoio.
Sette metri e ottanta sono cinque persone in fila, distese. Immaginate di percorrere cinque corpi in fila, testa-piedi. Camminate lungo i corpi di cinque persone distese per terra.
Devi percorrere questa dimensione: non è un quadro fatto per gli occhi, non ce la fanno ad accogliere in un unico sguardo tutta quella tela. È una tela: una coperta enorme di tempera grigia che si estende per otto metri e si innalza sulla tua testa. Tre metri e mezzo come due persone in piedi, l'una sull'altra: i pedi di una sulle spalle dell'altra.
Quanti corpi potrebbe accogliere questa immensa superficie?
Potrebbe.
Perché dipinti, qui su questi più di ventisette metri quadri, vedo solo 5 corpi deformati e mastodontici, straziati. Un cavallo, un toro e un paio di lampade.
E forse qualcos'altro più profondo.
Sapete cos'è Guernica?
È una cittadina nel nord della Spagna – basca, ad esser pignoli. Conta meno di 17mila abitanti ed il suo codice postale è 48300. Sì, ha un codice postale, perché è fatta di persone, reali. Le stesse che il 26 aprile del 1937 morirono. Era un lunedì. Sera.
C'era la Guerra Civile.
Il quadro di Picasso è stato dipinto quello stesso anno, ed in realtà in un paio di mesi.
Guernica NON racconta. Non commemora.
Testimonia.
Non è dipinto nel ricordo di. È un urlo di lacrime.
Guernica, la città, ha un primato – che non avrebbe voluto: è stata la prima città in assoluto ad aver subito un bombardamento aereo. Degli aerei, all'improvviso. Assordanti, gli aerei militari: sapete, nella mia città c'è un aeroporto militare. Li sento, i boati tremendi.
Ma non siamo in guerra.
Sono profondi come il ruggito delle tigri, ma non sono in gabbia.
Non volevo dilungarmi in note storiche, ma mi chiedo: come potevo immaginare quanta paura impastasse quella tempera grigia senza sapere cosa quell'insieme di linee stesse raccontando davvero?
In basso a destra della tela, c'è una testa. Un uomo di profilo, la testa calva enorme. È chiara e liscia, come un uovo gigantesco. Rotto. Fragile. Caduto in terra.
Ha un occhio aperto. No, ne ha due. Storti, come fossero sbagliati.
La testa è caduta e i suoi occhi sono scivolati, disordinati male, come una bambola sbagliata. Occhi sbarrati, aperti e non vedenti.
Non vede perché è morto. Immobile.
La bocca aperta e muta. Sembra aver urlato, ma adesso non si sente. Vedo i denti, in fila, perfetti. Allineati come soldatini di piombo, impeccabili. Non come gli occhi sconquassati.
La nuca è scomoda, poggiata su qualcosa di peloso e ispido. È un cilindro. Una gamba. Una zampa.
Vedo un ferro di cavallo, accanto alla sua testa d'uovo. Il ferro di cavallo grande quanto la bocca coronata di denti. L'uomo, cadendo, ha incastrato la zampa posteriore di un cavallo sotto la sua nuca.
Le braccia aperte, in croce, lungo il bordo del quadro.
Il braccio sinistro lungo e grosso, steso fino all'angolo del quadro: nell'angolo, sì, in basso a sinistra, la mano aperta di questo uomo calvo e gelato. Il braccio è di ghiaccio spaccato, ci sono linee che percorrono la mano, spaccature aguzze, come un cubo di cristallo freddo che si spacca cadendo. La mano rigida, tozza, aperta in uno spasmo. L'altro braccio finisce in un pugno: il suo pugno. Stringe un pezzo di chiodo spezzato, un chiodo grande come un coltello da cucina. Spezzato. Sdentato. Ma forse è una spada. E insieme al manico, stringe un fiore. L'unica cosa bella in questa scena. Anche questo braccio è di ghiaccio lesionato e non so se queste linee scure che sembrano spaccate sono come le vene di un braccio che pulsa stringendo un peso.
Il chiodo spezzato punta uno zoccolo, una zampa. È il cavallo.Alzo lo sguardo, il cavallo è al centro del quadro, ma non potrei vederlo subito perché la testa del cavallo – ora la vedo, alzando lo sguardo – è lì in alto, a tre metri. È un cavallo grande il doppio del normale, mastodontico come un elefante.
Ed urla. Urla muto anche lui. Il collo è lungo e il muso punta a sinistra, ha gli occhi tondi e piccoli, due sfere e un punto al centro. Le narici dilatate, gli vedo tutti i denti, dritti e grandi, ed una lingua tesa, a punta, dritta, sparata fuori dalla gola. È talmente appuntita, la lingua, che giurerei essere un proiettile.
Il corpo del cavallo occupa tutta quella fascia sopra l'uomo testa di uovo. È uno spazio enorme, e so che c'è il corpo dell'animale. Ma non lo vedo. Vedo solo linee e confusione, solchi, segni, graffi. A toccare questo spazio, sento solo carta stropicciata e dura, più dura del foglio di giornale, ma puzza uguale, di bruciato e polvere d'inchiostro. Forme appuntite si sovrappongono, riempite di segnetti verticali, come peli ispidi di una scopa da spazzacamino. Dura.
Le setole di ferro. Arrugginito?
In cima alla testa del cavallo, proprio sopra il suo naso, una lampadina, grande, sembra un occhio, dalla forma. Ma è grande come la testa del cavallo, un po' di più. La forma è uguale agli occhi storti dell'uomo pelato. La lampadina tonda e bollente al centro di un piatto, appuntito ai bordi. Attorno al piatto, verso il basso, sul cavallo, denti aguzzi, come stalattiti, come il bordo di una sega da film horror, triangoli duri. Se fosse esploso un iceberg, l'esplosione aguzza si sarebbe congelata così: come una stella di swarovski tagliente. Attorno alla lampadina.
Che sia un occhio divino? Sembra illuminare un cono d'ombra.
A sinistra, oltre lo strillo acuto del cavallo, un toro: in luce solo la sua testa, il corpo in ombra.
Il toro tozzo, la bocca semi aperta, sembra ebete. È vivo, non ha segni di tensione, ma evidentemente sordo, non capisce cosa sta accadendo, guarda fisso qualcosa che non c'è. Non vedo i denti.
Ha sembianze di un toro, ma sta muggendo. Come una mucca buona che aspetta di essere munta. Anche la mucca taurina guarda a sinistra, dov'è il suo corpo. Sembra guardarsi indietro, ma: sotto di lei.
Pietà.
Una madre, il figlio in braccio. Morto. Il bimbo; la madre viva, ancora poco, a malincuore. Straziata, non vorrebbe.
La madre è lì inginocchiata davanti al toro. La sua testa di profilo, ritorta indietro, contratta in una posizione scomoda e nervosa, il collo teso verso l'alto, il naso sfiora la bocca del toro.
La bocca spalancata a momenti bacia il toro in un lamento lancinante. Anche lei ha la lingua aguzza. Sparata fuori dalla gola. Sembra volersi staccare la lingua, ed anche il collo.
Gli occhi sbarrati hanno la forma di due lacrime giganti.
È perfettamente di profilo, la donna, ma si vedono entrambi gli occhi: deformata. Ed i capelli cascano all'ingiù e sembrano pendere come una coda di animale.Il petto piatto si allunga in due seni appesi. I capezzoli gonfi di una madre che allatta.
Una mammella è più gonfia, storta, casca sulla pancia del neonato morto, appeso, le braccine aperte e cascanti senza forza. Un piccolo Gesù mai cresciuto. La testa è appesa all'indietro, il naso all'insù, gli occhi bianchi, senza pupille, ceco, il bambino. Gli occhi morti sembrano due barchette ferme in un stagno di pelle ed, a guardarli bene, quegli occhi insieme al naso inverso sembrano formare il muso di un animale sinistro.
La madre dagli occhi di goccia, gocce di luna pallida, ha le mani tese aperte, come quelle dell'uomo calvo morto ai suoi piedi. La mano spasmodica di quell'uomo è tesa aperta proprio sotto la testa del neonato, pelato come lui: pronto a raccoglierla quando cadrà dalle braccia della mamma.
Alle spalle il corpo buio del toro, con una coda folta illuminata: una fiamma lunga e dritta che punta all'angolo in alto a destra. Questa bestia muta e senza sentimento, sembra la cecità guerriera dei tedeschi che bombardarono Guernica, che cupa alle spalle della mamma pietà, non capisce e non sente le urla dell'amore.
Davanti ad un conflitto […] gli artisti non possono e non devono restare indifferenti – dice Picasso. Questo toro è indifferente. Non è un artista. È disabitato da forme d'anima. Disumano. Disumanizzato.
Cos'erano i nazisti?
Dietro il toro, buio pesto. Eppure vedo i segni che delineano un tavolo. Sul tavolo un'oca. Un uccello. Ha il becco spalancato ed emana sofferenza. È così buio che non si percepisce quasi. È tra la testa del toro e quella del cavallo, ma l'uccello così piccolo che lo spazio sembra vuoto. E pesante.
Sono ancora a metà quadro.
C'è ancora un'ala, a destra. Ma è più illuminata, più chiara, ancora viva.
Che fatica immensa percorrerlo. La mia lingua mi sembra troppo lenta. Eppure forse un po' veloce rispetto al ritmo cupo della scena.
Tutto il quadro ha il suono basso e roboante di un tamburo.
Non è vero: sono gli arei. I rombi degli aerei militari.
Come avrebbero potuto associare quel suono, per quanto penetrante, al lamento della morte?
Gli abitanti di Guernica.
Nessuna città mai prima di allora era stata bombardata dagli aerei.
Nessuno poteva immaginare. Una sorpresa agghiacciante. Come il buio freddo a tratti azzurro delle sfumature grigie di queste tempere.
Pietrificati. Sembrano di pietra queste sagome. Corpi più pesanti del peso della carne.
Corpi di sasso.
Come quelli di Pompei. Corpi di lava freddata, come freddate le vite all'improvviso. Pietrificate nel dolore inaspettato di un disastro.
A destra. A destra del cavallo, in alto accanto alla sua criniera, una lampada ad olio, che sfiora quell'occhio lampadina con gli aculei.
La fiammella nella lampada è accesa, sarà bollente la lampada; è tra le mani, stretta in pugno, da una donna disperata: il suo profilo, lontano dalla lampada, spunta fuori dal bordo superiore di una porta; non si vede, ma il suo corpo sarebbe fuori dalla tela. Il profilo della donna, il naso lungo, l'orecchio grande, la sua testa finisce in un collo appuntito, come fosse stata spremuta fuori da un tubetto. La sua testa ha la forma di una goccia di perla, liscia, senza rughe, senza contrazione: solo gli occhi tristi che osservano il cavallo. Ed un filo di capelli lunghi, neri ed ondulati, attaccati al cranio, pochi. Unti.
La bocca semiaperta. O semichiusa.
Un attimo: dalla porticina sbuca anche una mano. Sì, vedo anche la sua mano, della donna-lanterna. La mano, le dita aguzze, incastrata tra i due seni tondi, gonfi, sodi: ed i capezzoli appuntiti. Triangoli perfetti. In penombra.
Proprio sotto questa donna, ai piedi del cavallo, sulla destra un'altra donna. Giunonica, il volto uguale a quella sopra, protratto in avanti, verso il cavallo, sembra assetata di luce: è tutta illuminata e sembra bere quella luce che proviene dall'occhio lampadina. Questa donna è semigenuflessa: le braccia, le mani, i seni penzoloni.
Attira l'attenzione un grande piede in primo piano, le dita dilatate, sembra un fiore dai petali giganti. Grande il polpaccio.
L'altra gamba è deforme. Grossa almeno il doppio della prima. Il ginocchio gonfio tocca terra: è pesante e sembra aver inghiottito un triangolo di pietra. Intravedo una punta isoscele dentro il ginocchio. La caviglia sottile e poi il piede daccapo gigante. Il suo piede nell'angolo più a destra, in basso, sembra far coppia con la mano simmetrica con la mano dell'uomo calvo morto a sinistra.
Dietro la gamba il buio.
Sul bordo destro, l'ultima figura femminile. Da metà tela – il che vuol dire da un metro e mezzo di altezza in su – una linea orizzontale: un recipiente triangolare, lo stesso che trafigge il ginocchio di quella in basso.
Dal triangolo emerge un collo e due braccia.
Il collo teso verso l'alto, guarda indietro e di profilo: un'altra faccia che urla muta. Un'altra.
Un'altra donna, mi sembra. E sembra risucchiata da qualcosa.
Il collo è lungo e grande e gelido: sembra fatto di marmo. Venato.
Le braccia dritte verso l'alto, tese al cielo oltre il quadro. È stupido, lo so, ma: vedo ciuffetti di peli sbucare dalle ascelle.
Come posso aver notato i peli, in questo clima di terrore?
Eppure li vedo. Non posso fare a meno di notarli. E di sentirla viva, quella donna che sembra di pietra. Ma sapete: la pietra non ha i peli sulle ascelle. La donna è viva. Forse per poco ancora. È in fiamme. Lei, il suo corpo, il suo spirito, il palazzo.
Gli occhi di lacrime, al centro una crepa stellata, come un groviglio di linee.
Il suo mento punta in alto, come una collina, sta per strapparsi il collo per quanto è teso.
E le braccia dritte e verticali supplicano aiuto. Oltre lei, lo sfondo è buio e indecifrabile: linee geometriche, grosse.Tutti i quadri di Picasso hanno linee così spesse, nere.
Ma non posso dire “nere”: profonde. Se il nero non fosse un colore, sarebbe una profondità melmosa, appiccicosa. Le linee che scontornano le sagome morenti in questo quadro sembrano disegnate col dito nella terra umida.
Sarà umida di sangue, in quel 26 aprile del 1937. Quel lunedì sera nel “bel” mezzo di una guerra, quando una cittadella con un vero codice postale e gente in carne ed ossa, non vide più il cielo, ma solo aerei militari.
E bombe.
Fuoco.
In alto a destra, nell'angolo del quadro, una finestrella.
Piccola.
Quadrata.
Dove sbuca?
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