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Immagine del redattoreMayra Stella M.

COSA SIAMO DOVE - P. Gauguin

Aggiornamento: 1 ago 2020

A destra, in basso, un bambino addormentato e tre donne sedute. Due figure vestite di porpora si confidano i propri pensieri. Una grande figura accovacciata leva il braccio e guarda attonita le due donne che osano pensare al proprio destino. Al centro una figura coglie frutti. Due gatti accanto a un fanciullo. Una capra bianca. Un idolo, con le braccia alzate misteriosamente e ritmicamente, sembra additare l'aldilà. Una fanciulla seduta pare ascoltare l'idolo. Infine, una vecchia prossima alla morte, placata e presa dai suoi pensieri, completa la storia, mentre uno strano uccello bianco, che tiene una lucertola con gli artigli, rappresenta la vanità delle parole.

Non è vero, Paul: le parole non sono vane.

Paul Gaugin, hai descritto il tuo quadro. Ma non è giusto: non ti sei sprecato.

Altezza 1.40 mt per quasi 4 metri di lunghezza. Quattro metri sono l'altezza di due porte.

Sono: te che apri le braccia e qualcuno uguale, accanto a te: dalla punta delle tue dita, alla punta delle sue … quelli, sono quattro metri.

Fanno 5 metri e 30 cmq, questa tela. Dimmi un po', Gaugin: non ci hai messo certo quattro righe e due minuti a completarla.

È per questo che le parole sono vane: ti ci devi dedicare, a raccontare.

E se me lo concedi, vorrei provarci io a ridipingere la tela di Tahiti.


Nel complesso, sembra tutto un grande muro, ha l'odore della notte, d'estate.

Un po' campestre, coi grilli e un po' di vento umido.

Voci e bisbiglii confusi, non sai se qualcuno sta parlando di te, forse qualcuno ti guarda, ti nota, ma non lo sai davvero. Senti che la vita sta scorrendo attorno a te, senza riuscire a controllarla. Si muove tutto placido, ma comunque troppo in sincrono perché tu possa averne un fermo immagine completo. Morbido, caldo, ovattato. Fluido.


Qui davanti, in basso a destra, un gruppetto muto: tre donne con le gambe raccolte, i gomiti sulle ginocchia accovacciate, ti stanno guardando loro: che stanno pensando di te?

Non puoi capirlo, hanno gli occhi rilassati e sembrano chiedersi chi sei, hanno notato che sei nuovo, sei straniero, si tengono il mento, pensando: i capelli legati, lunghi e lisci. Non hanno dei vestiti, ma fazzoletti di cotone bianco e fresco. Dietro queste due curiose, un'altra donna, di spalle a loro, tende l'orecchio: vorrebbe ascoltare i loro pensieri, l'hanno esclusa e lei di spalle, appena offesa ed accaldata. Sembra avere la pelle bollente, di quei giorni che resti al sole tante ore e poi ti bruci, senza rendertene conto: arriva sera ed hai la febbre della pelle.

In campeggio. Hai già fatto la doccia?

Profumi già di sapone e olio solare.

Ai piedi delle donne, in terra, su quest'erba di palude un po' umidiccia, un bambino, appena nato, ma non troppo, dorme a pancia in su. Ha il collo storto, tutto a un lato, gli farà male al suo risveglio, ma ora dorme e un cane in ombra, appena dietro, aspetta buono, zampe a terra e testa dritta. È solo un'ombra, ma è presente: e metà corpo è fuori dalla tela.

Il cane guarda alle sue spalle: acqua, tronchi, uno stagnetto? Oppure il bordo di quel mare che di giorno è un po' di tutti e poi di notte si trasforma nel diario di chi aspetta e accoglie lacrime e pensieri solitari di chi ascolta il suo riflesso nel silenzio.


Rami di alberi contorti, come un boschetto, una radura, due donne che passeggiano: si stanno confidando, sembrano essere a braccetto, le teste vicine, vogliono quasi che i pensieri passino da una testa all'altra senza usare le parole, bisbigliano. La tunica lunga e accesa, sembra sappia di dolcezza, non è fresca, ma nasconde bene i corpi, mentre loro - le due donne - hanno i gomiti piegati e i pugni chiusi, assorte in una macchia di solitudine. Il cane le guarda tranquillo. E le guarda anche una schiena nuda e morbida, massiccia, totalmente nuda. È liscia e illuminata dal tramonto, è quasi sera. Questa schiena ha un braccio alzato sopra il capo, si accarezza i capelli raccolti in una coda, vedo solo il suo orecchio, sembra non avere un volto, il collo è completamente storto, come se la schiena fosse fissa e lui (o lei?) dovesse voltare la testa interamente. Guarda con l'orecchio, tutto quanto. Il braccio teso accanto al busto e l'altro in su, a dirla tutta, sembrano trasformarsi in un struzzo e il becco aguzzo. Il braccio-zampa dello struzzo è grosso e tozzo, muscoloso.


Davanti in primo piano, al centro di tutto, un giovane ragazzo seminudo è in piedi, braccia alzate, coglie un frutto, un melograno, un pomo rosso e nettarino. La pancia piatta, cosce tonde e ben tornite. Avrà 17 anni, niente peli, niente barba. Solo capelli lisci e lunghi. Il volto piatto, un po' schiacciato. Il mento alzato, guarda il frutto sopra la sua testa, è calmo, ma concentrato. Il frutto sembra non staccarsi, lui si appende con due mani, prova a ruotare il frutto per spezzarlo dal picciuolo, sembra stia quasi per appendersi al rametto: le ginocchia appena flesse, il bicipite ingrossato, le spalle appena curve e pancia in dentro.

Attorno al pube ha un fazzoletto fresco di bucato. È piccoletto: con le braccia alzate è alto un 1.40 mt, ci sta tutto nell'altezza della tela.


Senti il rumore delle foglie, è una notte in quel campeggio estivo. I suoni delle piante, chiudi gli occhi, respira lentamente. Senti i suoni di qualcosa che non sai, ma mette pace e sei da solo. C'è tanta gente sulla tela, oltre l'olio di pittura, ma ciascuno è solo. Tranne le due donne confidenti, ognuno è solo con sé sesso.


In terra, sulla terra polverosa e asciutta, un ragazzino, sui 10 anni, i piedi nudi e giunti, di profilo a te che stai davanti al quadro, sta dando un morso ad una mela accesa, come fosse incandescente o caramellata. In semi-ombra, assorto nel suo morso. Morde il frutto da più di 120 anni. Era il 1897 quando il suo profilo è nato dalle mani di Gauguin. Capelli ordinati, tunica larga e stropicciata, alle sue spalle un paio di gatti silenziosi, giocano. Il bambino mangia il frutto che il ragazzo in piedi non riesce ancora a cogliere.


Alla destra del ragazzino dal morso perenne, una capra.

Puzza, poverina. L'odore forte delle capre è asciutto e chiuso: sa di vecchio e abbandonato in un cassetto. Come i sogni di un adulto sconsolato.

Che hai paura a tirarli fuori, perché lo sai: non potrai ignorarli. Come l'odore delle capre fuori dalla stalla.

Ho provato a mungere una capra: è buona e calma. Ha le mammelle calde e, sai, non ricordo più l'odore. Ero troppo concentrata a dedicarmici, pian piano, senza farle male: ha la mammella come un dito, ma più morbido. Un guanto. Un guanto in lattice, pieno di latte. Caldo e delicato. Con un foro in cima. E non devi farle male: pian piano la stringi, ma non troppo e tiri appena in giù. Come una sac-a-poche mentre prepari i bignè: delicato, ma deciso. E sei così tanto concentrata e dedita alla capra che non senti più l'odore.

Così i sogni nel cassetto: puzzano fin tanto che li guardi senza dedicartici davvero.


Dietro il ragazzino mangia-mela, ancora erba e piante: come agosto in roulotte, sotto gli alberi e la ghiaia ed i balsami della gente che si lava la salsedine del giorno. Che nostalgia del mare e del campeggio.

Un groviglio di piante, là dietro, e di suoni: un uccello strano, quasi un'anatra selvatica con la coda lunga, passeggia in lontananza. E nella semi-ombra c'è una statua indiana. Una divinità che non conosco, a braccia alzate e cristallina. È lì sulla sinistra e sorveglia tutto il gruppo delle undici persone, un cane, capra e un paio di gatti.

La statua è del colore delle piante e del cielo delle nove in piena estate: azzurro chiaro, che ha il suono di quei flauti un po' stonati, come i campanelli dei negozi di cosmetici e tisane. Il profumo dolce delle prugne e qualche spruzzo acerbo di chiodi di garofano.


Ignorata, unica vestita e solitaria, una ragazza ombra, sottile come il tronco di questi alberi nodosi, spaesata, la mano al petto. È spaventata? Nessuno se ne preoccupa, nessuno la vede. Invisibile tra il buio. Un fiore grande tra i capelli di onde nere, non sa niente, potrebbe non essere nel quadro. Irrilevante.


In basso a sinistra, nell'ultimo angolo di questa lunga tela, ci sono ancora tre figure: due donne ed una papera. Muta e pulita.

La papera è muta, lo so: mia nonna ne aveva un paio. Su un terrazzo nel bel mezzo del paese. Sul terrazzo, oltre il secondo piano di questa casa cittadina, due papere mute e assorte passeggiavano tranquille. Hanno gli occhi tondi e trasognati, in un mondo parallelo. Non pensano e non guardano davvero. E questa papera nell'angolo a sinistra e sotto gli occhi di una donna giovane, seduta un po' di lato, le ginocchia flesse alla sua sinistra, cosce a terra, il busto teso, un po' inarcato verso destra: il braccio destro dritto e stabile sorregge il corpo, ben piantato a terra. Al polso sinistro, leggero, posato sulla coscia, un braccialetto scuro, del colore dei capelli, è una cordina e un sassolino a decorarlo.

Questa ragazza giovane che guarda in basso all'oca, i seni tondi e ben in vista, come frutti tropicali appena colti e vellutati. Attorno ai fianchi, anche lei ha un fazzoletto chiaro di cotone semirigido, come le casacche estive nei villaggi di vacanza.

I miei nudi sono casti senza abiti: forme e colori che si allontanano dalla realtà.

Accanto alla ragazza, accovacciata e disperata, con le mani sulla faccia, una figura anziana, credo donna, i capelli ispidi e raccolti in una coda. Ha gli occhi chiusi, ma non dorme: il corpo, i gomiti e le ginocchia rigide, come una chiocciolina secca e spaventata, senza rughe o cicatrici, non so come lo so che è vecchia. Lo percepisci dall'alone di tristezza terminale, credo. La mano in faccia, le copre la metà dell'espressione, un'altra mano sembra chiuderle l'orecchio. Come quando vuoi reggerti il peso dei pensieri, che il collo non ce la fa da solo.


Ed alle spalle della coppia di queste ultime due donne, uno specchio d'acqua chiara e calcinosa, che non so se forse è un lenzuolo chiaro da picnic o un manto di una neve che non è mai esistita in questo paradiso tropicale.


Una scena lunga che puoi passeggiare. C'è posto anche per te, se ti siedi in terra e chiudi gli occhi. Senti il solletico che entra dalla cima della testa e scende dietro, sulla nuca e ti rilassi.

Appena agli angoli più estremi in alto,a destra ed a sinistra, due piccoli dettagli.


Come un affresco su una parete d'oro, con gli angoli rovinati.

Così l'ha immaginato, questo insieme di colori. Una parete d'oro: dove esiste?

Una parete scorticata, come l'oro del tufo salentino. Dorato di mandorle in granella. Biscotti alla cannella. Pacato.

Le Isole Marchesi, in Polinesia, sono state l'ultimo viaggio di Gauguin, nel 1895, luglio.

Poco prima, un tentativo di suicidio non riuscito. E poi questo testamento spirituale, un poema figurato.


L'essenziale – dice – consiste precisamente in quello che non è espresso. Ho cercato di tradurre il mio sogno in una decorazione suggestiva senza minimamente ricorrere a mezzi letterari. […] è una meditazione che non fa più parte della tela; non titolo, ma firma.

Il titolo dell'opera: Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?


Tu lo sai? Te lo sei chiesto, fino ad oggi?

Io forse no.


Gauguin muore in carcere, solo, stanco e malato: il 31 marzo 1903 condannato per essersi opposto al governatore francese, alla sua politica razzista.

1903 – 2020

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